In una società complessa e dai confini geografici indefiniti come quella in cui viviamo è necessario andare oltre la visione della violenza come questione correlata ad attività criminali; essa pervade la società in maniera capillare ed è contagiosa. Inoltre, sappiamo come l’esposizione alla violenza sia un fattore di rischio per la salute mentale, motivo per cui la riflessione sulla violenza entra a pieno diritto nel territorio della salute pubblica. È necessario definire i costi umani della violenza, sostenere il cambiamento e fornire interventi basati su evidenze.
La violenza mina la salute ed è per questo che i sistemi sanitari devono affrontarla.
Gli abusi sessuali sui minori, la violenza sulle donne, la violenza notturna alimentata dall’abuso di droghe e alcool, la minaccia pervasiva del terrorismo sono fronti aperti nella società contemporanea, a qualsiasi latitudine. Parliamo di esperienze che lasciano segni con cui le vittime faranno i conti tutta la vita, che influenzano la salute mentale di intere comunità e che limitano la libertà degli individui nel vivere e abitare tanto lo spazio pubblico quanto quello privato.
“Il rapporto tra malattie mentali e violenza è quello che potremmo chiamare il dark side della psichiatria”, spiega Alessandro Rossi, dell’Università de L’Aquila e presidente eletto della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI). Lo studio delle conseguenze più a lungo termine del comportamento violento, sia subito sia agito, è già al centro della riflessione psichiatrica. La ricerca negli anni, infatti, è andata via via definendo la violenza come un fattore di rischio, non tanto come causa o conseguenza, per lo sviluppo di malattie mentali. Questo significa che l’aver subito comportamenti violenti – che devono essere studiati e quantificati – nelle diverse fasi della vita può costituire un fattore di rischio per numerosi disturbi mentali. “È dimostrato che la violenza subita interviene nell’esordio di vari disturbi della personalità, può facilitare l’esordio di tipo psicotico e può facilitare la comparsa di disturbi del comportamento alimentare”, aggiunge Rossi.
Se la violenza è al centro della riflessione psichiatrica per le sue correlazioni con la salute mentale, non possiamo dimenticarci che siamo anche nel territorio della salute pubblica e vanno messi in campo anche altri strumenti. È necessario comprendere, ad esempio, la natura contagiosa della violenza e dei fattori che facilitano la trasmissione tra generazioni e tra confini, per individuare i fattori di rischio della violenza e mettere in campo gli interventi di prevenzione adeguati si può e si devono usare gli approcci epidemiologici sviluppati per le malattie contagiose. È questa la direzione indicata dal Commonwealth Secretariat e dalla UK Faculty of Public Health nel definire il ruolo centrale della sanità pubblica nell’identificare i fattori di rischio e di protezione, monitorando la minaccia della violenza, sostenendo un approccio internazionale e di comunità e adottando un numero crescente di interventi di prevenzione basati sulle prove.
Quali sono i fattori di rischio per la violenza? Sicuramente la violenza non evitabile quando prevale l’instabilità, le famiglie sono caratterizzate da disfunzioni e le comunità o le nazioni sono debilitate dall’esistenza di conflitti politici, disuguaglianze e povertà. Vale ad ogni latitudine e per ogni fascia di età: i bambini abusati o testimoni di violenze domestiche o cresciuti in quartieri violenti hanno molte più probabilità di diventare adulti violenti. Ma non solo, l’esposizione alla violenza nei primi anni e prima della nascita può avere ripercussioni sulle prospettive sanitarie, sociali e educative dell’individuo. Secondo una rassegna pubblicata sul Lancet, le persone che sperimentano più esperienze avverse (come l’abuso, l’abbandono e la violenza domestica) durante l’infanzia hanno un rischio raddoppiato di andare incontro a malattie cardiovascolari e oncologiche da adulti, oltre che maggiori rischi di disturbi mentali. Nelle zone che non vivono la guerra esistono fenomeni che favoriscono la legittimazione della radicalizzazione e della violenza come percorsi alternativi di giustizia; basti pensare alle comunità straniere meno integrate, all’emarginazione di alcuni gruppi religiosi o persino al fenomeno delle bande e delle mafie. Nelle zone di conflitto, i bambini traumatizzati dalla guerra mostrano una maggiore propensione alla violenza. Ma non solo, le esperienze di conflitto e post-conflitto spesso diventano situazioni in cui la fragilità sociale e istituzionale, i fenomeni migratori forzati e le avversità diffuse agevolano la violenza interpersonale e sociale. Capire meglio quali sono i fattori che determinano la violenza significa spezzare gli ingranaggi che possono determinarne la diffusione. Intervenire con le giuste misure di prevenzione è un imperativo etico e di salute pubblica, a partire dalla primissima infanzia, in ogni luogo del mondo.
Tra gli strumenti basati su evidenze troviamo l’approccio INSPIRE per arginare la violenza sui bambini. Un pacchetto di interventi sicuramente funzionale in contesti ad alto e medio reddito dove si parte dal presupposto che siano già gestiti driver di violenza come la corruzione o la mancanza di democrazia e ci siano in campo le infrastrutture necessarie agli interventi come l’accesso all’educazione e i servizi sanitari. L’approccio si basa su interventi multipli: leggi per criminalizzare la violenza, ridurre l’abuso di alcol e droga e controllare l’accesso alle armi; rafforzare le norme che sostengono relazioni non violente ed eque; creare ambienti sicuri per i giovani; sostenere i genitori e i caregiver per ridurre comportamenti parentali crudeli e promuovere un attaccamento positivo; migliorare la sicurezza economica e la stabilità delle famiglie; migliorare la risposta e i servizi di supporto; e sviluppare le abilità sociali, emotive e di vita dei bambini.
Per prevenire la violenza a livello mondiale anche negli epicentri di violenza dove non sono garantiti i requisiti minimi è necessario allargare lo sguardo agli UN Sustainable Development Goals che specificano obiettivi di prevenzione della violenza in un quadro più complesso che affronta la povertà, le disuguaglianze e la garanzia dei diritti di tutti.
Non intervenire significa legittimare un fattore di rischio che porterà ad una maggiore diffusione della malattia mentale con conseguenti costi in termini di salute pubblica.
Quanto costa la violenza? Secondo la riflessione Interpersonal, collective, and extremist violence are public health problems, pubblicata a fine ottobre sul Blog del BMJ, in tutto il mondo, circa sono circa 580.000 morti all’anno per violenza e questo numero è solo la punta di un iceberg che comprende problemi di salute fisica e mentale per milioni di persone e ad ha un costo stimato per l’economia mondiale di 14,3 miliardi di dollari; ovvero il 12,6% dell’attività economica o 5,40 dollari a persona al giorno.
A cura di Norina Wendy Di Blasio
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