Il disturbo noto come sindrome da stanchezza cronica (CFS, chronic fatigue syndrome) negli Stati Uniti e altrove come encefalomielite mialgica (ME, myalgic encephalomyelitis) è in realtà, secondo l’Institute of Medicine (IOM), una grave e complessa malattia multisistemica che i medici devono imparare vedere come “reale”, diagnosticandola adeguatamente.
A dirlo è l’Institute of Medicine (IOM), proponendo oltre al nuovo nome anche nuovi criteri diagnostici per la malattia; in un rapporto di 235 pagine la commissione raccomanda che il disturbo sia rinominato in systemic exertion intolerance disease (SEID) dal momento che il termine esistente “non è di nessun aiuto ai pazienti”.
Cosa dice il rapporto dell’Institute of Medicine?
“Il punto centrale”, secondo il rapporto Beyond Myalgic Encephalomyelitis/Chronic Fatigue Syndrome: Redefining and Illness redatto dall’IOM, “è che quella di sindrome da stanchezza cronica o encefalomielite mialgica è una diagnosi da effettuare”. La novità sostanziale rispetto al passato, infatti, è aver posto l’accento sul fatto che si tratta di una malattia (disease) e di una sindrome (syndrome).
L’IOM fa una scelta audace e prova a fare un poco di chiarezza sull’incertezza che ruota intorno alla malattia e che dipende soprattutto dalla scarsa definizione dei criteri diagnostici. Nel farlo pone l’accento sul malessere che segue uno sforzo fisico tipico di questa condizione, proponendo di adottare il nuovo nome di SEID e di parlare di diagnosi in presenza di tre condizioni:
La diagnosi può essere fatta quando il paziente presenta questi sintomi da almeno sei mesi, per almeno la metà del tempo, con intensità moderata, sostanziale o grave. A differenza di alcune definizioni precedenti, questa non è una diagnosi di esclusione e può essere applicata anche a pazienti che hanno altre condizioni potenzialmente affaticanti.
Cosa cambia per chi soffre di fatica cronica?
“Un nuovo nome di per sé non migliorerà la vita delle persone con la malattia”, commenta Ganiats TG sugli Annals of Internal Medicine. Per colmare il divario che esiste oggi nella pratica clinica e aiutare le persone con questa malattia serve una maggiore conoscenza e accettazione della malattia tra i medici, oltre ad un programma di ricerca avanzata.
A cura di Norina Wendy Di Blasio
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